16.1.12

Io voglio esserci... perché ho ancora qualcosa da dire. Stay tuned!

26.3.11

Il cigno nero

Il Cigno Nero di Darren Aronofsky
(2010) USA

La chiave di lettura del film può essere molto semplice: è la messa in scena del cigno nero "ma stavolta sarà diverso". Ed effettivamente Aronofsky non fa altro che sfruttare la storia di base del celebre balletto per osare e andare un po' più oltre ed immaginare una protagonista mentalmente instabile, vessata dalla madre e dal difficile ambiente della danza, che nel voler a tutti i costi raggiungere la perfezione del ruolo a cui è stata assegnata finisce per trasformarsi essa stessa in un "cigno nero", una parte oscura di sé stessa che non pensava di avere e che la trascinerà verso conseguenze estreme. 
Lo stile del regista rimane intatto e pur essendo questo film una naturale prosecuzione di The Wrestler, questa volta l'occhio di Aronofsky è ancora più sporco, molto più instabile, decisamente più crudo di quanto non lo fosse nel film precedente, anche se sulla carta la storia con Mickey Rourke poteva offrire spunti molto più cruenti. In realtà è Natalie Portman a far sfogare le fantasie più sfrenate del regista e sono il suo volto ed il suo corpo a portare i segni di questa mutazione, sia fisica che artistica: la macchina da presa perennemente in movimento e a mano le sta addosso in maniera morbosa, quasi al limite del fastidio, fino ad entrarle in testa e a mostrarci le sue allucinazioni e il suo punto di vista distorto della realtà. Sorprende, invece, come nonostante la fotografia sporca e l'uso della cinepresa a mano, il regista riesca a creare sequenze di grande impatto, visualizzando al tempo stesso il presunto realismo del suo metodo ma anche il grande inganno dell'occhio cinematografico: le scene dei balletti tradiscono un gusto per la coreografia cinematografica non da poco, così come la scena dello specchio è al tempo stesso funzionale alla storia ma anche punto di rottura con il falso realismo di cui prima. E' come se il regista avesse trovato il punto di contatto tra la grande fantasia visiva de L'albero della vita e l'essenzialità narrativa de Il teorema del delirio.
Pur portando avanti un discorso importante sul cinema, Il cigno nero rimane comunque un film che non trascura la struttura narrativa, capace di trascinare lo spettatore nel gorgo di emozioni e di follia della protagonista, trasformandosi quasi in un film horror per certi aspetti e in una tragedia greca per altri. 

5.3.11

The Social Network

The Social Network di David Fincher
(2010) USA


500 milioni di utenti iscritti nel mondo ma chissà quanti di questi saprebbero dire chi è Mark Zuckerberg e come ha creato il mostro multimediale e sociale del nuovo millennio che corrisponde al nome di Facebook. A fare chiarezza, si fa per dire, ci pensa David Fincher che investe il suo talento in una parabola moderna fatta di genio e abnegazione ad una causa oppure ossessione di una vita. 

Su sceneggiatura complessa (non originale) di Aaron Sorkin, la scelta del regista è quella di rimanere sul filo del rasoio: non si schiera, non prende posizione né pro né contro il più giovane miliardario del mondo, nonostante la storia del suo social network sia fatta di ombre e cause legali presto zittite a suon di assegni. La sua scelta è quella di narrare mantenendo un equilibrio ammirevole che aveva già dimostrato di saper gestire ai tempi di Zodiac e che qui affina ancora di più e con tempi molto più ristretti: il film dura più di due ore ma grazie ad un montaggio serratissimo e ad una colonna sonora veramente efficace e bellissima, Fincher riesce a raccontare tantissimo e quel tantissimo a sfaccettarlo di sfumature che altrimenti sarebbero andate perse. The Social Network, inoltre, si propone come nuovo punto d'incontro tra velleità cinematografiche e narrazione moderna: se infatti da una parte, visti alcuni temi del film, la pellicola si rivolge ad un pubblico giovane e contemporaneo e Fincher si diverte a soddisfare quel pubblico (per esempio con la scena della gara di canottaggio), dall'altra parte il regista ingloba un uso della macchina da presa, della fotografia e della composizione delle scene che rimanda ad un cinema quasi classico (i titoli di testa, le chiacchierate fra i due fondatori di Facebook). E' un incontro/scontro riuscitissimo fra linguaggio vecchio e nuovo. Ultima osservazione che mi sembra importante: il regista e lo sceneggiatore, come già detto, mostrano la storia da molteplici punti di vista e alla fine è veramente difficile stabilire chi abbia torto o chi ragione; del resto il film narra in parte di Facebook, un social network dove effettivamente tutti possono esprimere non solo la propria opinione ma condividerla, inglobarla, estenderla, anche deformarla se se ne ha voglia. Il concetto, insomma, si esprime anche nella forma narrativa del film. 
Che poi certe cose siano state gonfiate perché fa tanto Hollywood è chiaro. Così come dispiace che il ritmo del film finisca per nuocere all'interpretazione degli attori che quasi sembrano andare di fretta ogni volta che entrano in campo. Ma quel che più rimane è la colonna sonora, autentico capolavoro di questo progetto. 

26.1.11

visioniINBREVE: Baciami ancora - Shadow - L'uomo nell'ombra

Baciami ancora di Gabriele Muccino.
Raramente si vedono film tanto ben confezionati quanto completamente vuoti di qualsivoglia idea o stimolo. E questo film è clamorosamente privo di qualsiasi intenzione e qualità; la cattiva riuscita della sceneggiatura si riflette perfino sulla regia del buon Muccino che fa dimenticare i fasti del apprezzabile L'ultimo bacio per ridurre tutto a macchietta, tutto ad estremizzazione dei suoi stilemi più classici, solo che qui naufragano tristemente verso il vuoto pneumatico di cui prima. E allora via al cast corale che urla dall'inizio alla fine come morsi da una tarantola, via alle stesse storie di sempre (ma basta con 'sti personaggi che mollano tutto e partono), via alla prevedibilità. La domanda è: perché? Il vero sequel de L'ultimo bacio era Ricordati di me, decisamente più riuscito di questa insulsa operazione commerciale che fa più danni che altro. Unico merito di Muccino è far lavorare la Impacciatore, brava ma trascurata dal cinema.

Shadow di Federico Zampaglione.
Il giovane musicista prestato al cinema ha divorato la lezione di un certo cinema horror anni '70 e Shadow, pur essendo figlio di quell'epoca, non appare per nulla anacronistico perché Zampaglione assimila quella storia del cinema horror e la fa propria, realizzando un'opera moderna, molto interessante e per nulla scontata. La sua qualità maggiore sta nel costruire una regia elaborata ed accattivante che sa dosare narrazione e velleità artistiche, il tutto mirando ad un preciso obiettivo e quindi non trascurando un elemento essenziale del cinema horror, cioè quello di proporre un forte punto di vista morale sulla contemporaneità. Tutto questo senza farsi mancare ferocia ed efferatezza ma quasi sempre fuori campo e con pochissimo sangue mostrato. Certo, la soluzione finale delude parecchio e getta una luce sinistra su tutto il resto del film ma fino agli ultimi cinque minuti Shadow rimane un riuscitissimo esempio di cinema di genere in Italia, cioè quello che l'Italia si ostina a non sapere o voler fare. Influenze esplicite del primo Dario Argento, specie nella seconda parte della storia, mentre a ben guardare si scorgono anche riferimenti ben più inaspettati, come un certo modo di muovere la macchina da presa proposto dalle opere di Sorrentino. 

L'uomo nell'ombra di Roman Polanski
La cosa più comune che ho letto in giro su questo film è che il regista ha realizzato un'opera d'autore senza nessuna velleità d'autore. Ed effettivamente, dopo averlo visto, la sensazione è proprio quella. Polanski, infatti, non si fa ingabbiare da una trama apparentemente banale per il suo cinema ma ci costruisce intorno tutta un'ambientazione, un'atmosfera ed un tono che la rendono non solo credibile nei suoi passaggi più azzardati (molti comportamenti del protagonista sono francamente discutibili) ma che gli danno modo di creare scene ed inquadrature bellissime, sfruttando al massimo i luoghi delle riprese. Ecco che allora la fotografia gelida, il mare sempre agitato, la spiaggia inumidita dalla pioggia, le linee nette di una casa, un traghetto che solca le onde, tutto questo si fa veicolo non solo della storia ma anche di un'idea fortissima di cinema che Polanski riesce a far emergere da una storia di spie e di potere. E Brosnan è sorprendentemente perfetto nel suo ruolo.

21.1.11

visioniINBREVE

My son my son, what have ye done? di Werner Herzog Strillatissima produzione di David Lynch (che sembra il tipo di produttore che ci mette i soldi e basta, poi possono fare quello che gli pare) il film di Werner Herzog è un'opera inconcludente e piuttosto infelice che non va a parare da nessuna parte. Dovrebbe essere la descrizione della discesa nella follia di un giovane attore che uccide la propria madre (con la quale ha un rapporto morboso) e poi si barrica in casa. Mentre la polizia assedia la casa, vari interrogatori a testimoni diretti ricostruiscono la lenta follia dell'individuo. La frammentazione della cronologia narrativa e il cast non di poco conto non aiutano a salvare l'opera dalla noia; peggio ancora, si percepisce l'evidente assenza di intenzioni del regista che probabilmente brancolava nel buio. La fredda fotografia e l'ironia latente sono gli unici appigli che aiutano lo spettatore ad arrivare fino alla fine. 

Nightmanre on Elm St. di Samuel Bayer Uno dei peggiori reboot della storia. La figura di Freddy Kruger e i buoni ricordi che ne avevamo vengono spazzati via da questo film insulso e scadente, di cui niente si salva se non l'attore nei panni del leggendario demone che però da il meglio di sé solo nei flashback. Un horror fuori da ogni logica commerciale ed artistica, anacronistico ed offensivo per il marchio creato da Wes Craven.

Happy Family di Gabriele SalvatoreL'ultimo film di Salvatores dichiara le proprie intenzioni fin dalla prima scena, quando il protagonista narratore dice di voler scrivere un film ma che non ha l'idea portante. Fondamentalmente Happy family è proprio questo: un pretesto ironico e catartico per giocare con le regole del cinema e della metaletteratura, nel quale Salvatores si diverte molto e mostra di essere a proprio agio. Pirandelliano fino allo stremo, la commedia è piacevolissima e divertente ed il regista tenta un paio di azzardi non da poco (un videoclip di immagini notturne, un montaggio isterico inusuale per il cinema italiano) come volesse togliersi degli sfizi a lungo sopiti. E nel farlo regala ottimi ruoli ad attori che non deludono, De Luigi in testa.

Brotherhood di Nicolo Donato Chiacchierata pellicola descritta come un "Brokeback Mountain nazista", Brotherhood è un'opera piacevolissima e per certi versi azzardata (c'è una scena di sesso omosessuale particolarmente lunga e dettagliata come non se ne vedevano da anni) che si realizza perfettamente nella messa in scena ma delude sul versante delle intenzioni. Se infatti la storia è molto ben raccontata e credibile, inducendo lo spettatore ad empatizzare con una storia d'amore impossibile ma bellissima proprio come fece Ang Lee, l'assunto finale (la violenza genera violenza) è abbastanza scontato e discutibile. La componente neo-nazista della storia appare quasi secondaria e funge da cornice a dei protagonisti molto ben scritti e altrettanto ben recitati. 

18.12.10

Dexter 5: vendetta e redenzione

QUESTO POST NON CONTIENE SPOILER SULLA QUINTA STAGIONE.

Le consuete e puntuali riflessioni che Dexter suscita sono arrivate al rispettabile traguardo della quinta serie. Lo schema abbiamo imparato a conoscerlo: si parte da un assunto base e cioè quello di un protagonista serial killer che soddisfa un istinto omicida rispettando un codice d'onore discutibile ma che a suo modo gli permette di unire l'utile al dilettevole. Le prime due stagioni erano state improntate al meccanismo più interessante: come far empatizzare il pubblico con un "mostro"? La sfida fu ampiamente vinta, non solo per il successo di pubblico (che in America non fa testo, visto che da quelle parti è ancora fortemente considerato lecito il desiderio di punire a morte chi si macchia di orribili crimini) ma soprattutto per le dinamiche seriali messe in campo a sostegno dell'obiettivo da raggiungere. La terza serie propose un capovolgimento della prospettiva: e se Dexter piacesse a tal punto da far nascere spirito di emulazione? La quarta, e forse la migliore, serie sottolineava la nascente preoccupazione del protagonista verso i doveri familiari e come questo potesse conciliarsi con la sua sete assassina. La risposta finale fu tanto spiazzante quanto inaspettata: non si può; sono due mondi che non possono coincidere e che finiranno prima o poi con il distruggersi a vicenda. 
La quinta stagione si è appena conclusa negli USA e nel primo episodio riprende esattamente il filo della quarta: Dexter Morgan ha fallito, non è riuscito a tenere insieme famiglia e sangue e ne consegue che sarà costretto a rimanere solo per sempre. L'inizio di stagione mostrava un evento troppo crudo, perfino per il protagonista e dunque per il pubblico: Dexter, frustrato e sofferente per il suo fallimento, uccide il primo uomo che gli capita a portata di mano e per quanto gli autori ci mostrino un evidente "bad guy", neanche ciò giustifica l'efferato (ennesimo) crimine del nostro Dexter. Da qui si poteva ripartire per una nuova e rischiosissima scommessa su cosa il pubblico è disposto a sopportare ma gli autori non hanno osato e hanno preferito glissare. La vicenda portante della quinta stagione, infatti, è la vendetta e la redenzione. Dexter si convince che per sopportare il dolore di ciò che gli è capitato dovrà aiutare qualcun'altro ad elaborare il medesimo lutto, coinvolgendo una donna (la new-entry Julia Stiles) nella sua fame di sangue. Tra alti e bassi a cui le precedenti serie non ci avevano abituato, la quinta stagione si conclude con una risposta per nulla consolatoria, né per il protagonista né per il pubblico: Dexter è un mostro; non importa il codice d'onore, non importa quanto schifosa sia la vittima che capita sul suo tavolo della morte, ciò che importa è che nulla di quello che il protagonista compie lo porta a sbarazzarsi del suo "passeggero oscuro". Quella voglia di uccidere è sempre lì, è inamovibile, è insaziabile. E' un ritorno alle origini che fa piacere, se così si può dire: le ultime due stagioni sembravano aver assunto un atteggiamento assolutorio su Dexter, mentre il finale della quinta ci riporta con i piedi per terra: il protagonista è un pur sempre un mostro, un assassino ingiustificabile, un emarginato. E' davvero così semplice empatizzare con lui? 
Sarà probabilmente il perno della sesta stagione, nonché valvola di sfogo. La quinta, infatti, ha dovuto necessariamente puntare tutto su Dexter e il terremoto interiore portato dagli eventi della quarta stagione. La sesta, adesso, può tornare a volare ancora più in alto e magari produrre altra meravigliosa letteratura come ha fatto con la quarta. C'è di certo che uno dei grandi interrogativi dei fan, ovvero se Debra Morgan scoprirà mai che suo fratello è un serial killer, sembrava essere stato messo di lato mentre nell'ultimissimo episodio della quinta stagione ritorna prepotente. E al riguardo, i brividi sulla schiena sono assicurati!

21.10.10

Buried

Buried di Rodrigo Cortés
(2010) Usa\Spa\Fra


Buried è un film politico. Il pretesto della claustrofobica trama thriller cede presto il passo alle connotazioni politiche e le relative conseguenze che questo comporta. Infatti la storia del povero Paul è implausibile ma non è alla coerenza narrativa che il film mira, difatti non avrebbe senso rinchiudere un sequestrato dentro una bara e costringerlo a procurarsi da lì i soldi del riscatto. Il fulcro del film è il luogo della vicenda: l’Iraq bombardato a scopi pacifici, i meccanismi insani delle guerre e come questi riescono ad influire anche sulle vite di coloro che di nazionalità appartengono al paese che quel bombardamento lo ha avviato: la storia di Paul è anche la storia dell’economia che si mette in moto intorno alla guerra fino a colpire le vite dei poveri cristi che per sfamare la famiglia si arruolano o fanno i lavoratori civili in zone di guerra. Ecco perché la plausibilità del film sta nella sua ambientazione irachena. Tutto questo è ancora più chiaro nella provocatoria scelta del finale, che ovviamente non rivelerò (a film finito, la gente è rimasta immobile per secondi interminabili, con le luci della sala già accese) ma che ben centra l’obiettivo morale dell’intera pellicola.
Buried è anche una sfida. Quella del regista Rodrigo Cortés che si impone 90 minuti di film girati all’interno di una bara sepolta. E lo fa per davvero senza farsi mancare nulla: la macchina da presa si muove, allarga e stringe, compie carrelli, zoomate (bellissima la scena ad alta tensione segnata da improvvisi zoom in avanti sul viso del protagonista) e perfino panoramiche. Cose apparentemente impensabili all’interno di una bara eppure Cortés lo fa e lo fa anche costruendo numerosi pretesti per non appiattirsi su un’unica fotografia monolitica. E la musica ci mette del suo, con un uso degno di Hitchcock (quest’ultimo sarebbe stato orgoglioso di questo film e fra l’altro la sua influenza si sente dappertutto, compresa nell’omaggio neanche tanto velato a Vertigo nei titoli di testa).
Buried è anche una vittoria, quella di Ryan Reynolds che costringe i suoi muscoli all’interno di una cassa e gioca tutta la sua interpretazione giocando al ribasso, alla sottrazione e per questo motivo senza mai diventare patetico o eccessivo ma semplicemente perfetto per il ruolo. Non male per uno che non si è mai particolarmente distinto per le sue doti, fino ad oggi. 

3.10.10

Inception

Inception di Christopher Nolan
(2010) Usa\Uk


La lunga e misteriosa attesa è stata alla fine premiata: Inception è ciò che ci si aspetta. Un film ambizioso, coraggiosamente spericolato nelle intenzioni narrative e nella messa in scena: una storia complessa e macchinosa da seguire e l’auto-inflitta limitazione all’uso degli effetti speciali digitali; per questo, stupore e meraviglia per la scena nel corridoio dell’albergo sono doppi se si pensa che è tutto artigianale, che quel corridoio sta ruotando davvero, ma sono doppi perché se non lo avessimo saputo, se Nolan non fosse andato in giro a raccontarlo orgogliosamente, probabilmente non ce ne saremmo neanche accorti, non avremmo notato nessuna differenza. Perché Nolan è fatto così: è fra i pochissimi registi sulla scena mondiale ad aver costruito una grammatica personalissima del cinema; vedi un suo film e ne riconosci lo stile, i topos, la visionarietà che lo contraddistingue, gli altissimi standard delle sue ambizioni e delle tematiche che gli ronzano in testa. Pur non essendo un film perfetto (orrore, un film imperfetto non può entusiasmare così tanto!) Inception fa dimenticare le sue sbavature, sulle quali più avanti tornerò, e produce risultati non indifferenti. 
INNESTO #1. Freud, Escher, il concetto di paradosso, l’arte surreale, il cinema di fantascienza, il romanticismo, Inception rappresenta un’accorta amalgama di influenze culturali che hanno avuto modo di crescere nella testa di Nolan durante i 10 anni di gestazione del film. Chiamatelo come volete, post-modernismo, mash-up e tante altre belle parole, ciò che conta è che Nolan porta al cinema una commistione di influenze degna dei grandi autori con Kubrick in testa e lo fa con grande coraggio e sottigliezza nel richiedere un notevole sforzo al suo pubblico più smaliziato ma senza mai far sentire a quell’altro pubblico la fastidiosa sensazione di essersi perso qualcosa. Nolan ha fatto una scommessa non indifferente con questo film e questo ci porta al passo successivo.
INNESTO #2. Nelle sue opere più riuscite, The Prestige in testa, Nolan ha sempre messo a nudo più o meno involontariamente le sue paure, le sue riflessioni sullo stato delle cose, la sua idea di cinema. Per questo quando si guarda un suo film si finisce sempre con il cogliere una componente metacinematografica che sembra fare il punto  sulla sua carriera ma anche sul cinema che gli sta attorno. Con Inception il discorso è ancora più sottile: come lo stesso Nolan ha ammesso, la storia del film è anche l’idea che il regista ha del suo cinema, un’arte collaborativa fatta di intelligenze che si completano, di invidualità che condividono un’idea nella quale credono e che vogliono vedere realizzata. Il trampolino per il terzo livello.
INNESTO #3. Il concetto del film è l’utopia che si possa impiantare nella testa di qualcun altro un concetto, un’idea, un pensiero. E lasciarglielo lì, questo virus bastardo capace di consumare anima e corpo nelle sue riflessioni. Per fare ciò i protagonisti si servono dei sogni, elaborazioni di un subconscio dove tutto è vero (perché ciò che sogniamo non lo possiamo inventare) e tutto è falso (ciò che sogniamo non corrisponde alla realtà nella quale viviamo) con il rischio di confondersi e perdersi nelle varie realtà. Perché la percezione del mondo circostante è un po’ il pallino del buon Nolan che si è sempre cimentato con personaggi ambigui calati in un ambiente tale da indurre seri dubbi sulla sua realtà (il protagonista di Memento non poteva nemmeno fidarsi di sé stesso, gli illusionisti di The Prestige erano ossessionati dall’inganno che i propri occhi subivano). Tutto questo ci porta all’assunto finale del film: quella trottola smetterà o no di girare? La risposta è: il regista vi ha impiantato un’idea nella testa, ha fatto lo stesso lavoro dei suoi protagonisti attraverso il sogno del cinema; è davvero importante la risposta a quella domanda o è importante come quella domanda vi sia stata “innestata”?
INNESTO #4. E chiediamoci anche quanto tempo Nolan ha impiegato per innestarci quella domanda. Perché uno dei momenti chiave e bellissimi della pellicola è lo scorrere del tempo di tre diverse dimensioni temporali che si influenzano l’un l’altra: qui Nolan compie il vero miracolo già insito nella sceneggiatura: una trama così complessa viene sciolta e raccontata in maniera chiarissima, non c’è nessun rompicapo da risolvere, l’abilità di Nolan di raccontare tanto ma di farlo bene è intatta e il momento dei diversi piani temporali è una sfida monumentale per il regista nonché il momento più alto della sua poetica: ancora come gli illusionisti nel passato della sua carriera, l’autore non vuole altro che stupirci ma con intelligenza, dando un senso alle immagini che popolano la sua storia e non buttandoci a caso sparatorie e morti. Anche perché c’è un concetto di morte piuttosto atipico che ricorda ben altro.
INNESTO 4#. Dal livello precedente il passo è breve: Inception è un cinema multimediale che fagocita stili e linguaggi che non appartengono alla cinematografia ma che negli ultimi anni si sono imposti, uno su tutti il linguaggio dei videogames che qui permea tutta la struttura del racconto. Missioni da portare a termine affrontando diversi livelli da superare e in caso di ferita o morte ci si può sempre rifare passando al livello successivo o tornando a quello precedente. Vi ricorda niente?

Certo, come dicevo sopra, Inception non è perfetto: non ha il crescendo emotivo de Il cavaliere oscuro e molto spesso non arriva mai ad emozionare perché disperde in troppe direzioni il suo potenziale; non ha i dialoghi memorabili del Joker ma anzi ha forse alcuni dei peggiori dialoghi del cinema di Nolan (l’assenza del fratello sceneggiatore si sente); non ha l’impatto devastante di una storia intricata che lentamente si scioglie poiché la non brillante idea dell’incipit di Inception lascia decisamente il tempo che trova; soprattutto Inception soffre, a mio parere, di una certa debolezza nel montaggio, incapace in alcuni punti di raccordare a sufficienza alcune scene ed in altre di mantenere chiara e lucida l’enorme mole di azioni che si svolgono sullo schermo (laddove, invece, trionfava Il cavaliere oscuro). Ma a questo si contrappone tutto quanto scritto prima, al quale bisogna aggiungere una delle più grandi colonne sonore degli ultimi tempi (Hans Zimmer) ed un finale ad altissimo tasso ansiogeno: le ultime immagini non le dimenticheremo facilmente!

Nota al margine: la storia che il film sia incomprensibile è una bugia montata ad arte, non so se dai nerd o dagli addetti al marketing. E’ solo un film complesso non adatto al pubblico pigro, quel pubblico che a noi non interessa. Ultima annotazione: Nolan mantiene viva la curiosa abitudine di far saltare qualcuno dall’alto e inquadrare in primo piano le gambe che si spezzano; stavolta è Di Caprio a saltare ma le sue gambe reggono il colpo. Che cosa è cambiato? 

27.9.10

Somewhere

Somewhere di Sofia Coppola
(2010) USA


Non capisco. Davvero non capisco. Non mi spiego questa improvvisa frenata nella sua bellissima carriera. Non mi spiego la vittoria a Venezia (pur non avendo visto gli altri film). Non mi spiego il perché. Allora una volta tanto voglio essere chiaro e anche puerile e banale se necessario: Somewhere è Lost in translation, ma senza le ambientazioni aliene, senza gli sguardi malinconici e strapieni di significato di Bill Murray, senza le risate genuine che spezzavano la tensione di una vicenda fondamentalmente triste, senza l'accattivante apatia di Scarlett Johansson, senza i dialoghi brevi ma densi ed universali, senza i silenzi rumorosi nei quali tutti sembravano udire quel "qualcosa" di fondamentale, senza quel circo di personaggi che aiutavano a delineare la desolante situazione, senza quella strisciante paura che tutto stesse per crollare inesorabilmente da un momento all'altro, senza quel geniale titolo che già racchiudeva tutto in un semplice gioco di parole. Somewhere è Lost in translation ma non ne possiede il carisma, non costruisce un crescendo emotivo, non ha un protagonista che sia unico e speciale ma sa di già visto e consumato, non produce nulla che non sia ridondanza estrema nel mostrare la solitudine di un uomo. E quando parte l'immancabile scena con sottofondo musicale malinconico e perfetto, piange il cuore che ad annunciare quell'attimo sia lo stesso protagonista con la frase: "bella questa canzone, è rilassante!"; e quando il protagonista scoppia a piangere per frasi fatte con una donna al telefono che non ricorderete chi sia perché tutti i personaggi sono piatti ed insignificanti, allora in quel punto rimpiangerete i bei tempi andati di Sofia Coppola. 
La giovane regista, anche ottima sceneggiatrice, rivendica questo film come il suo più personale, insieme a Lost in translation, rimandando al paragone forzato di cui sopra. Ma a voler essere davvero provocatori, allora bisogna dire che questo film è un'involuzione piuttosto che un'evoluzione: fosse venuto prima Somewhere e poi Lost in translation, forse avrebbe avuto più senso, avrebbe acquistato un valore di molto superiore, avremmo visto una carriera che continua a crescere e prova a dimostrare di aver qualcosa da dire ogni volta e con un mezzo vecchio di cent'anni. Invece Somewhere arriva dopo Lost in translation, molto dopo e ne imita toni, contenuti, perfino scene (il finale è lo stesso... lo possiamo ammettere?). 
Ecco perché Somewhere è indifendibile. Perché è una battuta d'arresto, un esercizio di stile riuscito male, un tentativo maldestro di rimaneggiare ciò in cui la Coppola si era mostrata vincente: sentimenti individuali di un protagonista che andavano a toccare, nei toni e nella messa in scena, corde universali. 
Quando poi ti accorgi anche che la locandina è stata ritoccata, davvero capisci che qualcuno intorno alla Coppola si stava accorgendo del disastro imminente. Questa poi ve la spiego. 

22.6.10

Il profeta

Un prophète di Jacques Audiard
(2009) Fra\Ita

L'eclettico Audiard possiede la capacità di realizzare un'opera complessa, profondamente diversificata al suo interno e così piena di trama senza perdere nemmeno per un attimo l'attenzione dello spettatore medio e quella dello spettatore più smaliziato. Un profeta (e non Il profeta, come assurdamente tradotto in italiano da qualcuno che non si è nemmeno accorto del sottile gioco di rimandi che la pellicola imbastisce grazie al titolo) ha al suo interno una storia stratificata e piena di eventi che riescono a raccontare ed a raccontarsi attraverso una serie di scene potentissime pregne di significato che continuamente sbandano da un registro all'altro; infatti, seppur tutto il film ha un tono durissimo, molto crudo e carico di violenza in ogni inquadratura, Audiard riesce ad inserirvi (in maniera del tutto logica e per niente fastidiosa) degli inserti al limite dell'onirico che vanno a completare un mosaico di per sé già ricco: dopo che assistiamo al primo omicidio compiuto dal protagonista (una scena bellissima costruita sull'attesa che la precede), non ci meravigliamo in seguito di rivedere quel morto ammazzato comparire come fosse una sorta di coscienza, forse perché già prima si rimane interdetti sul primo di tanti fermo immagine con didascalia. Da lì in poi questo gioco di regia diventa un punto chiave della stessa narrazione filmica, finendo addirittura per anticipare alcuni risvolti di trama o addirittura insinuando la vocazione "profetica" del protagonista. 
Il film si "riduce" pur sempre ad essere la storia pazzesca di un ragazzino di 19 anni che si ritrova a dover scontare 6 anni di carcere e che da quell'esperienza ne uscirà segnato. Il bello è scoprire quale tipo di segno si porterà addosso. O se caso mai sarà lui a lasciare un segno in quel carcere. Tutto questo viene narrato attraverso una "congiunzione" di immagini che è vero cinema, cioè una serie di scene che nella loro somma ci consegnano un quadro di perfezione ed originalità stilistica che è soprattutto pura narrazione audiovisiva. E c'è poi la sottile ironia che ruota intorno a quel titolo ambiguo. 
Non lo potrete sottovalutare.